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Monzù

Monzù! La parola evoca spade che scintillano e grida stridenti di “samurai” in battaglia, scriveva il NEW YORKER nell’Ottobre del 1990 in un articolo dedicato alla cucina del Regno delle Due Sicilie, ma è invece la corruzione dialettale napoletana della parola francese “Monsieur”, titolo onorifico concesso ad alcuni maestri chef francesi che le famiglie aristocratiche napoletane assunsero presso di se.

E’ doveroso, in premessa,accennare al fattoche uno dei componenti basilari della cucina napoletana, sia popolare che quella di corte, è, ed è stata, la pasta. Essa, così amata dai napoletani i quali si meritarono per questo il titolo di “mangiamaccheroni”, fu introdotta durante il regno di Federico II di Svevia a cavallo dei secoli XII e XIII proveniente dalla Sicilia dove era già presente nel secolo XI, grazie agli arabi che l’avevano importata soprattutto come vermicelli (itrya). Ma soltanto con l’introduzione del pomodoro,nel secolo XVII,la pasta ebbe uno sviluppo dirompente. Infatti,prima di questo avvento,i napoletani erano conosciuti come “mangiafoglia” per l’uso prevalente che essi facevano di broccoli e verdure.

 

Ma l’oggetto primario di questa presentazione è la cucina colta che già nel 1500, quando Carlo V venne a Napoli, si distinse per le sue creazioni sontuose: si presentavano nei banchetti reali per antipasto “prosciutti salviati” cotti nel vino e salvia, fegatelli impanati e cotti sui carboni avvolti in foglie di lauro, “arrosti conmirausi, peperati e civere”, torte a base di marzapane e cotognata, come ci descrive Benedetto di Falco nel 1535 nel suo tomo “Descrizione dei Luoghi Antichi di Napoli e del suo Amenissimo Distretto”.

Anche se il 700 fu il secolo che consentì alla cucina napoletana di compiere un salto di qualità con riguardo alla raffinatezza dei piatti, alla ricchezza dei cibi, alla sontuosità delle composizioni, già nel 600 si faceva sfoggio di tavole preziosamente imbandite e di piatti sopraffini. Celebre è la descrizione del banchetto nuziale svoltosi nel dicembre del 1688 quando l’aristocratica Chiara De Salcedo andò sposa al Marchese Del Tufo.

 

Come si è detto il 700 fu il secolo durante il quale la cucina napoletana di corte e delle famiglie aristocratiche compì un grande salto di qualità grazie soprattutto alle influenze

d’oltralpe. Per capire quale sia stata l’influenza francese sulla gastronomia napoletana, è bene conoscere quale fosse la situazione della Corte di Re Ferdinando, Re “Lazzarone”: egli bello e sportivo aveva trascinato alla caccia e alla pesca il suo educatore, Principe di San Nicandro, celebre maestro d’armi ma non altrettanto celebre quanto a buona educazione. Pertanto il Re crebbe d’indole scostumata, neghittosa e priva di ogni riguardo.

Egli chiesee ottenne in sposa la figlia dell’Imperatore d’Austria, Maria Giuseppa, che purtroppo morì durante il viaggio verso Napoli. Il Re allora si limitò a chiedere in sposa Maria Carolina d’Austria, sorelladi Maria Antonietta, la sventurata Regina di Francia ghigliottinata durante la Rivoluzione.

Questa sovrana, così poco schifiltosa in certe faccende, non amava la cucina partenopea, che considerava poco degna della Corte e contaminata da quella spagnola. Pertanto chiese alla sorella Maria Antonietta di inviargli i suoi raffinati cuochi francesi che fusero mirabilmente le due cucine dando corso ad una delle più squisite, saporite e raffinate linee di gastronomia.

 

I cuochi napoletani, allevati sin dall’inizio alla scuola dei cuochi francesi, cominciaronocosìa generare una stirpe di cuochi straordinari, che per la loro celebrità ebbero a pieno titolo il diritto di chiamarsi Monsieur, da cui con storpiatura tutta napoletana i rinomati Monzù.

Il grande balzo compiuto dalla cucina di corte e delle case aristocratiche fu quindi impresso durante il Regno delle Due Sicilie e l’interregno di Gioacchino Murat consacrando definitivamente la napoletana fra le grandi cucine europee. Sia per la Regina Maria Carolina, sorella della sfortunata Regina Maria Antonietta, sia per il periodo Murattiano prettamente francese, la cucina popolare partenopea si fuse con quella sontuosa d’oltralpe, influenzandosi magistralmente. Le pesantezze gastronomiche francesi a base di salse butirrose, di creme con elevato contenuto di grassi e così via furono fortemente attenuate dalle basi estremamente sapide di una cucina di territorio, mentre i piatti migliori della gastronomia napoletana furono arricchiti con composizioni elaborate e di grande scena raggiungendo traguardi da far tremare i più rinomati cuochi francesi dell’epoca.

 

Tra le celebri dinastie di Monzù a Napoli si distinsero i Pallino, il cui vero cognome era Micera, i Polisano, il cui capostipite Pietro, baldo cavaliere di Gioacchino Murat, si dette alla grande cucina al ritorno dei Borboni, e i Piccolo, il cui notissimo esponente Monzù Francesco fu il primo inventore del cateringgià nell’Ottocento, avendo intuito che molte famiglie avrebbero rapidamente eliminato le dispendiose cucine padronali. I Monzù a Napoli erano quasi sempre conosciuti con nomignoli o con il loro nome di battesimo seguito dal cognome o dal predicato delle famiglie aristocratiche presso le quali avevano iniziato la loro carriera o avevano servito più a lungo. Così Nicola Micera (Pallino) era Nicola ’e Tricase, Vincenzo Attolini era Vincenzo ’e Compagna, Salvatore Ruggiano veniva chiamato Cunfettiello, Vincenzo Marino Terramoto.Un altro rinomato Monzù di corte si rese celebre per quanto segue: i Maccheroni (Spaghetti), che il popolino mangiava con le mani, erano banditi dalla corte perché indecorosi agli occhi della Regina. Ma, su richiesta del Re, il Monzù Gennaro Spadaccino inventò la forchetta a 4 rebbi, con la quale anche a Corte si potevano gustare i maccheroni, senza troppo danno per jabot e tovaglie.

Giovanni Starace, celebrato e ultimo Monzù al servizio della famiglia borbonica, invaghitosi dell’ultima amata Regina delle Due Sicilie Maria Sofia, creò per lei un piatto delicatissimo che le dedicò dandogli il suo augusto nome: il “Timpano di Maccheroni alla Maria Sofia”.
Un altro grande Monzù si distinse a Napoli in casa dei Principi Pignatelli di Monteroduni: Aquilino Beneduce. Era un cuoco raffinatissimo, che non ammetteva venir meno alle speciali elaborazioni delle sue ricette.
La stirpe di questi geniali creatori di raffinate presentazioni culinarie si perpetuò quasi fino ai giorni nostri grazie alle famiglie aristocratiche che hanno sempre curato a Napoli i loro Monzù considerandoli parte essenziale delle loro esistenze. Tempi recenti e minori disponibilità finanziarie hanno decretato la fine dei Monzù di famiglia, allo stesso modo come il cessare della vita di corte non abbia più consentito il coltivare personaggi che hanno fatto grande la cucina napoletana.
La grande dinastia dei celebrati Monzù è ormai un ricordo affievolito del passato, anche se gli ultimi fuochi nel secolo scorso sono stati egregiamente alimentati da un esponente di grande spicco, che può oggi riaccendere e vivificare, attraverso l’Accademia di cui ne è rettore, la sublime arte della cucina aristocratica napoletana: Gerardo Modugno……… ultimo Monzù.

             

              Franco Santasilia di Torpino

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